In Giappone era molto difficile avere una scheda con il sistema pay-as-you-go cui siamo abituati in Europa. Ma circolavano voci di alcuni posti in cui ne davano. Così, la mia amica Sara, da anni residente in Giappone, mi portò a Omotesandō presso un grande negozio NTT. Risultato, nulla.
Digressione: a Sara, che parlava un ottimo giapponese, il commesso rispondeva in inglese. Ho osservato il fenomeno in più occasioni e ne ricavo una generalizzazione sulla visione geografico - linguistica diffusa in Giappone: 1. l'occidentale parla inglese, a prescindere dalla nazionalità effettiva; 2. quindi egli è l'occasione per praticare la lingua, in genere American English; 3. Diversi giapponesi ritengono che, a prescindere dalla competenza in giapponese dimostrata dallo straniero, bisogna parlargli in inglese.
Facciamo l'esame di coscienza prima di ridere del punto 1: moltissimi italiani non distinguono un cinese da un giapponese... Passiamo, poi, ai punti 2 e 3. La conoscenza dell'inglese pare una necessità molto sentita in Giappone, forse per una sete, più che legittima, d’internazionalità. Ricordo la pubblicità di una delle numerose scuole di lingua, frequente sui minischermi che punteggiavano i vagoni del treno che mi portava a lavoro. Uomini d'affari stranieri in riunione discutono in inglese. In fondo alla tavola, un giapponese. La telecamera si muove sotto il tavolo, dove le persone, man mano che prendono la parola, si passano un pallone. La palla arriva tra i piedi del povero giapponese, che suda, imbarazzato per non essere capace di capire la conversazione.
Capisco bene quella sensazione d'imbarazzo e frustrazione, vissuta da straniero parlante una lingua straniera in diverse occasioni. Per esempio, e qui torniamo al cellulare, quando mi decisi, infine, ad andare alla filiale vicino casa della Docomo, grossa compagnia telefonica giapponese. Per avere il mio cellulare, in conclusione, dovetti aprire un contratto telefonico, con tanto di bollette a casa. Ci volle più di un'ora di conversazione tra me e il giovane e gentilissimo commesso, che mi seguì nella laboriosa stesura del contratto fin'oltre l'orario di chiusura. Ne uscii spossato ma trionfante. A me, già ultimo della mia generazione ad avere un portatile, nonché utilizzatore volontario in patria dei modelli più economici, il telefonino che avevo ora tra le mani pareva cosa da fantascienza. In Giappone, già allora, prima degli smartphone, non si usavano sms ma email, e ci si collegava on line per ogni esigenza; prima di tutte, come avrei imparato presto, per gli orari dei treni.
Il fantascientifico telefonino? Appena mostrato alle colleghe giapponesi, lo guardarono con sufficienza: ma questo è di quelli fatti in Corea, è proprio scarso! Così, anche in Giappone, avevo il modello più umile... Fatto sta che il solo ricordo del leggero trillo che l'apparecchio emetteva al momento di attivarlo (un trillo sentito tutti i giorni, più volte al giorno), rievoca in me, come se un interruttore mi venisse premuto nel cervello, le sensazioni e percezioni di quei mesi.
Primi di aprile 2010, pomeriggio. Proprio le mie ultime ore in Giappone, la sera prima della partenza, sarebbero state rovinate dal cellulare. Pensando di sbrigare rapidamente la chiusura del contratto, entrai in una succursale della mia compagnia telefonica, dove mi trovai incastrato per alcune ore, tra file e obblighi burocratici... Così trascorsi il prezioso tempo che avevo progettato di dedicare a una passeggiata serale d'addio nel quartiere. Rovinandolo anche alla mia amata, che, ignara delle difficoltà, mi aspettava preoccupata in albergo.
(foto di Alessandra Corda)