È successo nei giorni della vacanza di Elena e Walter, ai primi di novembre 2008. Camminavamo non lontano dalla stazione centrale di Tōkyō, nella parte finale di Chūō Dōri, verso Nihonbashi.
Lì si trova una libreria a più piani, Maruzen. Il suo fascino risiede nell'essere stata fin dalla seconda metà dell'Ottocento un punto di riferimento per l'acquisto di libri stranieri, all'epoca non disponibili ovunque. Posto frequentato, quindi, dall'intellettualità tokyota. Infatti, a chi legge racconti giapponesi dei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, capita di imbattersi in uno dei protagonisti in visita alla libreria. Entrarci, per un appassionato di letteratura giapponese moderna, dà quella particolare sensazione di toccare finalmente con mano cose già un po' familiari, conosciute nei racconti.
In quel momento, però, non eravamo lì per Maruzen: eravamo affamati, cercavamo un ristorante e davanti alla libreria si trovava Takashimaya, uno dei più noti grandi magazzini di Tōkyō, forse tra i più antichi (la sede di Nihonbashi risale al 1933). Ci trovavamo nell'ampio salone dell'ingresso principale. Cinque - sei piani dove ancora si respirava un'aria elegante da primi del Novecento. Stava per chiudere, mentre la sezione ristoranti sarebbe rimasta aperta più a lungo. Questa si trovava in un'annesso, esattamente dall'altra parte dell'edificio, all'ultimo piano. Sbrigandoci, saremmo riusciti a raggiungerla. Superato l'ingresso, iniziammo ad attraversare di corsa i corridoi e salire tutti i piani...
Ed ecco, succede una cosa inattesa: davanti a ogni singolo negozio, il personale, in fila ordinata, si inchina al nostro passaggio. Dovevamo percorrere l'intero edificio, quindi ci trovammo, per tutto il percorso, che mi parve lunghissimo, a passare di fretta tra due ali di persone che in sequenza s'inchinavano, quasi a effetto domino.
S'intuiva che doveva essere una pratica legata alla chiusura del negozio, ma solo mesi dopo, parlando con Alfredo, un amico che lavorava in un altro grande magazzino, seppi che da loro, a ogni apertura e chiusura, il personale doveva disporsi in fila per salutare con un inchino i primi e gli ultimi clienti della giornata. Era quindi una pratica normale, ma la sensazione che provai da Takashimaya fu strana. Colto di sorpresa, avvertivo un senso di angosciato imbarazzo a vedere tante persone inaspettatamente dedicarci, in massa, un tale segno di rispetto, anche se non era rivolto a noi nello specifico, ma genericamente agli ultimi clienti della giornata.
Fu così che ricevemmo, senza volerlo, un trattamento in altri contesti riservato ai re... Caso forse un po' estremo, ma non unico della cortesia con cui spesso ho visto negozianti e ristoratori trattare il cliente a Tōkyō. C'è chi ha scritto dell'inchino giapponese, in tutte le sue gradazioni e sfumature. Dopo un po' che si vive lì si tende d'istinto, magari goffamente, ad adeguarsi. Alla resa dei conti, qualunque interpretazione gli si voglia dare, resta una forma di rispetto.
Ci si abitua in fretta alla cortesia. Poi un giorno, tornati in occidente, una cassiera ti infila in mano con gesto frettoloso, senza guardarti in faccia, il resto della spesa. Un fastidio istintivo: ci si sente trattati con scortesia, anche se, per i parametri locali, non è successo niente di strano. Dal senso di sconcerto per un piccolo gesto, mi sarei reso conto di quanto, giorno dopo giorno, mi ero abituato a quel mondo. E che adesso, superata un'invisibile linea culturale di confine, ne ero fuori.
(foto di Alessandra Corda)
Lì si trova una libreria a più piani, Maruzen. Il suo fascino risiede nell'essere stata fin dalla seconda metà dell'Ottocento un punto di riferimento per l'acquisto di libri stranieri, all'epoca non disponibili ovunque. Posto frequentato, quindi, dall'intellettualità tokyota. Infatti, a chi legge racconti giapponesi dei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, capita di imbattersi in uno dei protagonisti in visita alla libreria. Entrarci, per un appassionato di letteratura giapponese moderna, dà quella particolare sensazione di toccare finalmente con mano cose già un po' familiari, conosciute nei racconti.
In quel momento, però, non eravamo lì per Maruzen: eravamo affamati, cercavamo un ristorante e davanti alla libreria si trovava Takashimaya, uno dei più noti grandi magazzini di Tōkyō, forse tra i più antichi (la sede di Nihonbashi risale al 1933). Ci trovavamo nell'ampio salone dell'ingresso principale. Cinque - sei piani dove ancora si respirava un'aria elegante da primi del Novecento. Stava per chiudere, mentre la sezione ristoranti sarebbe rimasta aperta più a lungo. Questa si trovava in un'annesso, esattamente dall'altra parte dell'edificio, all'ultimo piano. Sbrigandoci, saremmo riusciti a raggiungerla. Superato l'ingresso, iniziammo ad attraversare di corsa i corridoi e salire tutti i piani...
Ed ecco, succede una cosa inattesa: davanti a ogni singolo negozio, il personale, in fila ordinata, si inchina al nostro passaggio. Dovevamo percorrere l'intero edificio, quindi ci trovammo, per tutto il percorso, che mi parve lunghissimo, a passare di fretta tra due ali di persone che in sequenza s'inchinavano, quasi a effetto domino.
S'intuiva che doveva essere una pratica legata alla chiusura del negozio, ma solo mesi dopo, parlando con Alfredo, un amico che lavorava in un altro grande magazzino, seppi che da loro, a ogni apertura e chiusura, il personale doveva disporsi in fila per salutare con un inchino i primi e gli ultimi clienti della giornata. Era quindi una pratica normale, ma la sensazione che provai da Takashimaya fu strana. Colto di sorpresa, avvertivo un senso di angosciato imbarazzo a vedere tante persone inaspettatamente dedicarci, in massa, un tale segno di rispetto, anche se non era rivolto a noi nello specifico, ma genericamente agli ultimi clienti della giornata.
Fu così che ricevemmo, senza volerlo, un trattamento in altri contesti riservato ai re... Caso forse un po' estremo, ma non unico della cortesia con cui spesso ho visto negozianti e ristoratori trattare il cliente a Tōkyō. C'è chi ha scritto dell'inchino giapponese, in tutte le sue gradazioni e sfumature. Dopo un po' che si vive lì si tende d'istinto, magari goffamente, ad adeguarsi. Alla resa dei conti, qualunque interpretazione gli si voglia dare, resta una forma di rispetto.
Ci si abitua in fretta alla cortesia. Poi un giorno, tornati in occidente, una cassiera ti infila in mano con gesto frettoloso, senza guardarti in faccia, il resto della spesa. Un fastidio istintivo: ci si sente trattati con scortesia, anche se, per i parametri locali, non è successo niente di strano. Dal senso di sconcerto per un piccolo gesto, mi sarei reso conto di quanto, giorno dopo giorno, mi ero abituato a quel mondo. E che adesso, superata un'invisibile linea culturale di confine, ne ero fuori.
(foto di Alessandra Corda)