Alcuni anni fa, appena tornato in Italia, mi sono sentito esausto. Vicino ai quaranta anni, con una vita familiare e lavorativa stabile da costruire, mi sono chiesto se un anno e mezzo di vita e lavoro a Tōkyō non avesse contribuito a questa spossatezza.
Eppure, ora che sono dall'altra parte del mondo, la città mi manca.
Molti amano il senso di ordine e affidabilità di quel sistema. Altri si sono sposati lì. Tanti, soprattutto le persone dai quaranta anni in giù, sono amanti di manga, anime, videogiochi, cultura pop in genere. Passeggiano nella Electric City di Akihabara e si sentono a casa.
Il mio attaccamento al Giappone nasce da altri motivi, che sono cambiati nel tempo. Non sono più quelli degli anni dell'adolescenza. Amavo l'estetica di una sobria bellezza, un rapporto privilegiato con la natura, con i sensi e con l'eros. Perlomeno, questo trapelava dai libri che leggevo.
O, più semplicemente, ero scontento della mia realtà e cercavo altrove un luogo che venisse incontro alle mie curiosità ed esigenze.
I motivi attuali del mio interesse sono più difficili da definire. Per molti versi, l'impatto iniziale con Tōkyō è stato cattivo, contribuendo al ripensamento del mio approccio col Giappone. Diciamo, però, che nel tempo ho esplorato, respirato la città, frugandoci un po' dentro. Alla fine ho ritagliato i miei percorsi di luoghi, persone e situazioni.
È questa vita giapponese che mi si è tatuata sulla pelle. Sicuramente insieme ad altri posti della mia esistenza, ma restando sempre un segno distinto, per quanto interiorizzato.
Una trattoria di piccantissimi rāmen del Kyūshū, il giardino antico di Hamarikyū sulle rive del fiume, i karaoke stonati con gli amici, i caffè sparsi ovunque per la città, i vicoli vecchio stile di Yanaka, il sapore del nattō, l'odore della folla nella metropolitana, il bosco del Meiji Jingū e il giardinetto dietro casa, gli amici europei e giapponesi, i sentō (bagni pubblici), un saggio di pianoforte all'auditorium Yasuda, i templi di Inari con le statue del dio-volpe nella notte, le cicale impazzite d'estate, le giornate di lavoro in biblioteca, il vecchio ponte Nihonbashi schiacciato dalle sopraelevate, una notte a piedi di ritorno a casa dopo aver perso l'ultimo metro, il negozio di hamburger sotto casa, il parco di Ueno con lo stagno di Shinobazu ricoperto di ninfee, il senzatetto con un gatto e corvo come amici al fossato di Chidorigafuchi, le mille sfumature di grigio e azzurro tra palazzi e cielo (...)
Eppure, ora che sono dall'altra parte del mondo, la città mi manca.
Molti amano il senso di ordine e affidabilità di quel sistema. Altri si sono sposati lì. Tanti, soprattutto le persone dai quaranta anni in giù, sono amanti di manga, anime, videogiochi, cultura pop in genere. Passeggiano nella Electric City di Akihabara e si sentono a casa.
Il mio attaccamento al Giappone nasce da altri motivi, che sono cambiati nel tempo. Non sono più quelli degli anni dell'adolescenza. Amavo l'estetica di una sobria bellezza, un rapporto privilegiato con la natura, con i sensi e con l'eros. Perlomeno, questo trapelava dai libri che leggevo.
O, più semplicemente, ero scontento della mia realtà e cercavo altrove un luogo che venisse incontro alle mie curiosità ed esigenze.
I motivi attuali del mio interesse sono più difficili da definire. Per molti versi, l'impatto iniziale con Tōkyō è stato cattivo, contribuendo al ripensamento del mio approccio col Giappone. Diciamo, però, che nel tempo ho esplorato, respirato la città, frugandoci un po' dentro. Alla fine ho ritagliato i miei percorsi di luoghi, persone e situazioni.
È questa vita giapponese che mi si è tatuata sulla pelle. Sicuramente insieme ad altri posti della mia esistenza, ma restando sempre un segno distinto, per quanto interiorizzato.
Una trattoria di piccantissimi rāmen del Kyūshū, il giardino antico di Hamarikyū sulle rive del fiume, i karaoke stonati con gli amici, i caffè sparsi ovunque per la città, i vicoli vecchio stile di Yanaka, il sapore del nattō, l'odore della folla nella metropolitana, il bosco del Meiji Jingū e il giardinetto dietro casa, gli amici europei e giapponesi, i sentō (bagni pubblici), un saggio di pianoforte all'auditorium Yasuda, i templi di Inari con le statue del dio-volpe nella notte, le cicale impazzite d'estate, le giornate di lavoro in biblioteca, il vecchio ponte Nihonbashi schiacciato dalle sopraelevate, una notte a piedi di ritorno a casa dopo aver perso l'ultimo metro, il negozio di hamburger sotto casa, il parco di Ueno con lo stagno di Shinobazu ricoperto di ninfee, il senzatetto con un gatto e corvo come amici al fossato di Chidorigafuchi, le mille sfumature di grigio e azzurro tra palazzi e cielo (...)