L'unica metropoli che ho visitato, alla resa dei conti, è Tōkyō. Le mie altre esperienze urbane, anche se numerose, sono quelle delle città europee, piccole a confronto delle megalopoli che stanno diventando modello dominante di urbanistica: Il Cairo, Città del Messico, Los Angeles, Singapore, San Paolo. Forse per questo Tōkyō ha inizialmente suscitato in me una reazione di rifiuto.
Mio secondo arrivo in Giappone, fine agosto 2008. I primi giorni, stordito dall'assalto ai sensi dalla metropoli, osservavo preoccupato i palazzi di Tōkyō. Non quelli sfolgoranti e nuovi di Shinjuku o di certe zone del centro, ma gli edifici, numerosissimi, degli anni '60-'80, rigati dalla pioggia e dall'umido.
Non amavo i materiali sintetici di cui erano costruite le case che dominavano il paesaggio urbano, dal condominio alla villetta. In quei primi momenti di soggiorno tokyota, poi, mi colpiva la loro scarsa resistenza, esteticamente parlando, all'usura del clima. Mi sarei stupito se qualcuno mi avesse detto che un giorno ne avrei provato nostalgia.
Forse sono stato poco fortunato con le case, ma quelle che ho abitato e visto erano spesso mal riscaldate (condizionatore) e traspiranti come buste di plastica. Finestre: regno della condensa. Per i pavimenti, laminato a venature finto legno. Infissi esterni rigorosamente in alluminio. Dimensioni del mio ultimo monolocale: 18 metri quadri, con bagno, anzi, Yunitto Basu (Unit Bath) di sì e no un metro quadro, in cui riusciva a entrare perfino una vasca!
Ogni tanto mi sono imbattuto in una casa di legno in abbandono, magari vecchia di qualche decennio. Un po' sghemba, apparentemente dimenticata e inabitabile, vittima del suo stesso materiale, che impone frequenti restauri e sostituzioni. Eppure, con i segni della gradevolezza passata. Bellezza evidente nelle strutture in legno, continuamente rinnovate e curatissime, di certi templi.
Imperava, è giusto ricordarlo sempre, un senso di pulizia e cura.
Mi colpiva anche il colore di gran parte degli edifici, che a prima vista mi parvero di un uniforme grigio o verde spento. Nel tempo, mi sono accorto della loro qualità. Solo quando ho cominciato a mettere a punto una diversa messa a fuoco dello sguardo: non più allargata, com’ero abituato, alle visioni d'insieme, ai panorami, ma concentrata sul particolare e su piccole porzioni di campo visuale. Allora mi sono reso conto che quei colori, a prima vista anonimi, erano spesso scelti con cura. Quei grigi, quei verdi, quei viola spenti si rivelavano tutt'altro che banali. Anzi, erano molto belli e sobri. Un esempio: certe villette nuove di Toritsu Daigaku, dove ho abitato un periodo.
Forse la scelta di quelle tinte rispettava qualche norma di decoro urbano, mirata a riposare l'occhio ed evitare colori stridenti. Oppure, chissà, potrebbe trattarsi di scelte estetiche collegabili a certe norme comportamentali pre-moderne, di epoca Tokugawa (1600-1868), che non consentivano alle famiglie samuraiche di ostentare ricchezza e colori sgargianti. Uno studio delle regole urbanistiche di Tōkyō aiuterebbe a capire meglio la situazione.
... Alla sobrietà del colore si accompagnava spesso l'impero del kawaii, del grazioso. Evidente, per esempio, nelle mille variazioni di cagnolini di ceramica esposti davanti agli usci delle case. Cani di tutte le razze ed età; magari con un cartello di “Welcome” appeso alla bocca dell'animaletto; a volte famiglie intere, adulti e cuccioli, tutti in ceramica. Il discorso sul "carino" giapponese, comunque, è complesso e poche righe non bastano a descriverlo. Basti pensare che l'estetica kawaii è amata anche da molti giovani occidentali. Ed è studiata in numerosi testi dedicati al Giappone pop contemporaneo.
(foto di Alessandra Corda)
Mio secondo arrivo in Giappone, fine agosto 2008. I primi giorni, stordito dall'assalto ai sensi dalla metropoli, osservavo preoccupato i palazzi di Tōkyō. Non quelli sfolgoranti e nuovi di Shinjuku o di certe zone del centro, ma gli edifici, numerosissimi, degli anni '60-'80, rigati dalla pioggia e dall'umido.
Non amavo i materiali sintetici di cui erano costruite le case che dominavano il paesaggio urbano, dal condominio alla villetta. In quei primi momenti di soggiorno tokyota, poi, mi colpiva la loro scarsa resistenza, esteticamente parlando, all'usura del clima. Mi sarei stupito se qualcuno mi avesse detto che un giorno ne avrei provato nostalgia.
Forse sono stato poco fortunato con le case, ma quelle che ho abitato e visto erano spesso mal riscaldate (condizionatore) e traspiranti come buste di plastica. Finestre: regno della condensa. Per i pavimenti, laminato a venature finto legno. Infissi esterni rigorosamente in alluminio. Dimensioni del mio ultimo monolocale: 18 metri quadri, con bagno, anzi, Yunitto Basu (Unit Bath) di sì e no un metro quadro, in cui riusciva a entrare perfino una vasca!
Ogni tanto mi sono imbattuto in una casa di legno in abbandono, magari vecchia di qualche decennio. Un po' sghemba, apparentemente dimenticata e inabitabile, vittima del suo stesso materiale, che impone frequenti restauri e sostituzioni. Eppure, con i segni della gradevolezza passata. Bellezza evidente nelle strutture in legno, continuamente rinnovate e curatissime, di certi templi.
Imperava, è giusto ricordarlo sempre, un senso di pulizia e cura.
Mi colpiva anche il colore di gran parte degli edifici, che a prima vista mi parvero di un uniforme grigio o verde spento. Nel tempo, mi sono accorto della loro qualità. Solo quando ho cominciato a mettere a punto una diversa messa a fuoco dello sguardo: non più allargata, com’ero abituato, alle visioni d'insieme, ai panorami, ma concentrata sul particolare e su piccole porzioni di campo visuale. Allora mi sono reso conto che quei colori, a prima vista anonimi, erano spesso scelti con cura. Quei grigi, quei verdi, quei viola spenti si rivelavano tutt'altro che banali. Anzi, erano molto belli e sobri. Un esempio: certe villette nuove di Toritsu Daigaku, dove ho abitato un periodo.
Forse la scelta di quelle tinte rispettava qualche norma di decoro urbano, mirata a riposare l'occhio ed evitare colori stridenti. Oppure, chissà, potrebbe trattarsi di scelte estetiche collegabili a certe norme comportamentali pre-moderne, di epoca Tokugawa (1600-1868), che non consentivano alle famiglie samuraiche di ostentare ricchezza e colori sgargianti. Uno studio delle regole urbanistiche di Tōkyō aiuterebbe a capire meglio la situazione.
... Alla sobrietà del colore si accompagnava spesso l'impero del kawaii, del grazioso. Evidente, per esempio, nelle mille variazioni di cagnolini di ceramica esposti davanti agli usci delle case. Cani di tutte le razze ed età; magari con un cartello di “Welcome” appeso alla bocca dell'animaletto; a volte famiglie intere, adulti e cuccioli, tutti in ceramica. Il discorso sul "carino" giapponese, comunque, è complesso e poche righe non bastano a descriverlo. Basti pensare che l'estetica kawaii è amata anche da molti giovani occidentali. Ed è studiata in numerosi testi dedicati al Giappone pop contemporaneo.
(foto di Alessandra Corda)