- continua dal 24.03.2015 -
In tanta efficienza del sistema di trasporti, spiccava un dato interessante per una metropoli di quindici milioni di abitanti: non esistevano treni notturni. Le corse finivano, al più tardi, verso mezzanotte e mezza. Dopo, non restava che camminare, prendere un taxi, o rassegnarsi a restare in zona, magari dormendo in un internet caffè. O nei famigerati kapuseru hoteru (capsule hotel), che non ho mai provato, contrariamente ad alcuni miei compatrioti che si sono voluti togliere il gusto di vivere l'esperienza.
Una volta, era l'inverno del 2008, persi l'ultimo treno e decisi di tornare a casa a piedi. Da Shibuya a Toritsu Daigaku doveva essere una decina di kilometri. Non sapendo la strada, camminai a lato della linea ferroviaria. Un paio d'ore di camminata notturna.
La prima sorpresa fu un misterioso fiumiciattolo cementificato, poco dietro la stazione di Shibuya, seminascosto tra i palazzi. Segno di una natura che persiste sotto il cemento. Mi affascina capire la stratificazione urbana, la traccia del fondo naturale originario. In particolare, per fiumi e ruscelli cittadini: fonti di vita, in quanto tali forse motivo del primo insediamento. Poi, pian piano, usati come discariche, fogne a cielo aperto; infine cementificati e intubati. Dimenticati. Eppure, eccoli ancora lì, a tracciare flussi nascosti sotto la pelle della città. A quanto pare, lo Shibuyagawa non aveva colpito solo me. Quando ho letto Mozaikku, romanzo della scrittrice Taguchi Randy, tradotto anche in italiano da Gianluca Coci come Mosaico (Fazi editore, 2008), ho scoperto che proprio nel canale sono ambientate le scene finali di questo libro interessantissimo, come altri romanzi di Taguchi, sempre alla ricerca delle fonti vitali, telluriche dell'esistenza.
Continuando il cammino, non lontano dalla stazione, ecco un grande edificio bianco con ciminiera svettante, spettrale nella notte. Si trattava di un seisō kōjō (inceneritore). Tōkyō ne aveva diversi, proprio dentro la città. Interessante anche quello di Shinagawa, proprio a due passi dall'ufficio immigrazione, con edificio a forma di fiore di loto.
Camminavo per la città addormentata. Superate le zone di grandi edifici e grattacieli, si coglieva bene come tante parti di Tōkyō siano occupate da numerose villette, quartieri residenziali estesi a perdita d'occhio.
Un'altra volta tornai a casa prendendo un taxi, saranno state le due - tre di notte. Mi colpì che a guidare la vettura fosse una donna, piccolina, forse sui quarant'anni. Segnale dell'affidabilità di questa metropoli, non a caso da poco classificata come città più sicura del mondo.
Tornando ai treni, due parole sull'abitudine dei giapponesi di fare un sonnellino un po' ovunque, non appena c'era la possibilità di rilassarsi un attimo. Soprattutto gli uomini, normalmente così misurati, tendevano a sbracarsi, bocca aperta, testa poggiata sul vicino. La cosa pareva accettata, o quantomeno tollerata. Nei treni, nei caffè... A cosa era dovuta questa sonnolenza diffusa? Non ho risposte speciali, a parte quella, forse ovvia, di una vita lavorativa impegnativa e di lunghi periodi trascorsi sui mezzi di trasporto.
Ho visto, poi, che, oltre al lavoro, i tokyoti tendevano a non risparmiarsi, a occupare il tempo con numerosi impegni, infilando anche attività di piacere, come, per fare un esempio, i corsi di lingua, in orari per noi poco canonici, tra cui la mattina prestissimo prima del lavoro. Quindi, alla fine, penso fosse normale recuperare un po' di sonno nei tempi morti del viaggio.
(foto sopra di Alessandra Corda)
In tanta efficienza del sistema di trasporti, spiccava un dato interessante per una metropoli di quindici milioni di abitanti: non esistevano treni notturni. Le corse finivano, al più tardi, verso mezzanotte e mezza. Dopo, non restava che camminare, prendere un taxi, o rassegnarsi a restare in zona, magari dormendo in un internet caffè. O nei famigerati kapuseru hoteru (capsule hotel), che non ho mai provato, contrariamente ad alcuni miei compatrioti che si sono voluti togliere il gusto di vivere l'esperienza.
Una volta, era l'inverno del 2008, persi l'ultimo treno e decisi di tornare a casa a piedi. Da Shibuya a Toritsu Daigaku doveva essere una decina di kilometri. Non sapendo la strada, camminai a lato della linea ferroviaria. Un paio d'ore di camminata notturna.
La prima sorpresa fu un misterioso fiumiciattolo cementificato, poco dietro la stazione di Shibuya, seminascosto tra i palazzi. Segno di una natura che persiste sotto il cemento. Mi affascina capire la stratificazione urbana, la traccia del fondo naturale originario. In particolare, per fiumi e ruscelli cittadini: fonti di vita, in quanto tali forse motivo del primo insediamento. Poi, pian piano, usati come discariche, fogne a cielo aperto; infine cementificati e intubati. Dimenticati. Eppure, eccoli ancora lì, a tracciare flussi nascosti sotto la pelle della città. A quanto pare, lo Shibuyagawa non aveva colpito solo me. Quando ho letto Mozaikku, romanzo della scrittrice Taguchi Randy, tradotto anche in italiano da Gianluca Coci come Mosaico (Fazi editore, 2008), ho scoperto che proprio nel canale sono ambientate le scene finali di questo libro interessantissimo, come altri romanzi di Taguchi, sempre alla ricerca delle fonti vitali, telluriche dell'esistenza.
Continuando il cammino, non lontano dalla stazione, ecco un grande edificio bianco con ciminiera svettante, spettrale nella notte. Si trattava di un seisō kōjō (inceneritore). Tōkyō ne aveva diversi, proprio dentro la città. Interessante anche quello di Shinagawa, proprio a due passi dall'ufficio immigrazione, con edificio a forma di fiore di loto.
Camminavo per la città addormentata. Superate le zone di grandi edifici e grattacieli, si coglieva bene come tante parti di Tōkyō siano occupate da numerose villette, quartieri residenziali estesi a perdita d'occhio.
Un'altra volta tornai a casa prendendo un taxi, saranno state le due - tre di notte. Mi colpì che a guidare la vettura fosse una donna, piccolina, forse sui quarant'anni. Segnale dell'affidabilità di questa metropoli, non a caso da poco classificata come città più sicura del mondo.
Tornando ai treni, due parole sull'abitudine dei giapponesi di fare un sonnellino un po' ovunque, non appena c'era la possibilità di rilassarsi un attimo. Soprattutto gli uomini, normalmente così misurati, tendevano a sbracarsi, bocca aperta, testa poggiata sul vicino. La cosa pareva accettata, o quantomeno tollerata. Nei treni, nei caffè... A cosa era dovuta questa sonnolenza diffusa? Non ho risposte speciali, a parte quella, forse ovvia, di una vita lavorativa impegnativa e di lunghi periodi trascorsi sui mezzi di trasporto.
Ho visto, poi, che, oltre al lavoro, i tokyoti tendevano a non risparmiarsi, a occupare il tempo con numerosi impegni, infilando anche attività di piacere, come, per fare un esempio, i corsi di lingua, in orari per noi poco canonici, tra cui la mattina prestissimo prima del lavoro. Quindi, alla fine, penso fosse normale recuperare un po' di sonno nei tempi morti del viaggio.
(foto sopra di Alessandra Corda)