- CONTINUA DAL 23.09.2015 -
La mattina successiva, dopo una colazione salata alla giapponese, con tanto di pesce cotto in tavola, ci dirigemmo a Nikkō in autobus. Lì vedemmo qualche pezzo di campagna, che appariva piuttosto densa di bosco, con radure e occasionali case. Nella mia esperienza di paesaggi rurali giapponesi, non grande, perché alla fine sono quasi sempre rimasto in città, il caso di campagna giapponese più "libera" dall'uomo che ricordi. Fuori dalle case, futon e altra biancheria stesa ad arieggiare.
Su Nikkō come paese non ricordo molto. Lasciata la stazione, passammo nelle vicinanze dello Shinkyōbashi, un antico ponte rosso sopra una gola, poi arrivammo al nostro obiettivo: il santuario-mausoleo di Tokugawa Ieyasu, il Tōshōgū, del XVII secolo. Due parole su Ieyasu (1543-1616) per chi non si occupa di cultura giapponese: condottiero e uomo politico, portò a compimento la riunificazione e pacificazione del paese, colpito da secoli di guerre civili. Non solo: creò un sistema amministrativo centralizzato ed efficiente che riuscì a durare per almeno due secoli e mezzo e che avrebbe caratterizzato i secoli premoderni del Giappone, fino alla modernizzazione a tappe forzate della seconda metà del XIX secolo.
Il nostro santuario, come si potrà intuire, era esteso e ricco. Pare che un critico d'arte inglese abbia definito il complesso di edifici, con poco rispetto della sacralità del luogo, "pure 17th-century Disneyland". Una cosa era innegabile: i seguaci dell'estetica zen, gli amanti del senso shibui (sobrio) delle case tradizionali in materiali grezzi, troveranno poco di questo nel santuario, che invece appare, potremmo dire, barocco nella vivacità di colori e nell'infinità di decorazioni, sculture e intagli. Una profusione d'immagini, sacre e meno sacre, in quello stile che, tra rossi, verdi e ori, sembra rappresentare proprio la radice tradizionale dell'attuale kawaii.
Nei dintorni del complesso templare, altri templi: mi è rimasta impressa l'immagine di un sacerdote che, spalle ai fedeli, officiava assorto un rito fatto di una sequenza di azioni complesse, tra preghiere, rintocchi di campana, bollitura di qualche sostanza e altri gesti veloci e misurati.
Sempre nelle vicinanze del santuario, ci inoltrammo per un sentiero in salita che, in pochi minuti ci fece scollinare. Dall'altra parte, un ruscello che si chiamava, se non ricordo male, "Hakuryū" (drago bianco), per il colore bianco della schiuma dell'acqua. Quello che mi colpisce nel ricordo delle mie poche incursioni nel bosco giapponese è il senso di maestosità cupa e fresca, tra alberi alti e dritti. E i colori accesi dell'autunno, con il rosso sfolgorante delle foglie d'acero.
Tornati per la notte all'albergo, ci dedicammo all'ultimo bagno affacciati sulla gola. Il giorno dopo rientrammo alla metropoli.
(foto di Walter Ponsano)
La mattina successiva, dopo una colazione salata alla giapponese, con tanto di pesce cotto in tavola, ci dirigemmo a Nikkō in autobus. Lì vedemmo qualche pezzo di campagna, che appariva piuttosto densa di bosco, con radure e occasionali case. Nella mia esperienza di paesaggi rurali giapponesi, non grande, perché alla fine sono quasi sempre rimasto in città, il caso di campagna giapponese più "libera" dall'uomo che ricordi. Fuori dalle case, futon e altra biancheria stesa ad arieggiare.
Su Nikkō come paese non ricordo molto. Lasciata la stazione, passammo nelle vicinanze dello Shinkyōbashi, un antico ponte rosso sopra una gola, poi arrivammo al nostro obiettivo: il santuario-mausoleo di Tokugawa Ieyasu, il Tōshōgū, del XVII secolo. Due parole su Ieyasu (1543-1616) per chi non si occupa di cultura giapponese: condottiero e uomo politico, portò a compimento la riunificazione e pacificazione del paese, colpito da secoli di guerre civili. Non solo: creò un sistema amministrativo centralizzato ed efficiente che riuscì a durare per almeno due secoli e mezzo e che avrebbe caratterizzato i secoli premoderni del Giappone, fino alla modernizzazione a tappe forzate della seconda metà del XIX secolo.
Il nostro santuario, come si potrà intuire, era esteso e ricco. Pare che un critico d'arte inglese abbia definito il complesso di edifici, con poco rispetto della sacralità del luogo, "pure 17th-century Disneyland". Una cosa era innegabile: i seguaci dell'estetica zen, gli amanti del senso shibui (sobrio) delle case tradizionali in materiali grezzi, troveranno poco di questo nel santuario, che invece appare, potremmo dire, barocco nella vivacità di colori e nell'infinità di decorazioni, sculture e intagli. Una profusione d'immagini, sacre e meno sacre, in quello stile che, tra rossi, verdi e ori, sembra rappresentare proprio la radice tradizionale dell'attuale kawaii.
Nei dintorni del complesso templare, altri templi: mi è rimasta impressa l'immagine di un sacerdote che, spalle ai fedeli, officiava assorto un rito fatto di una sequenza di azioni complesse, tra preghiere, rintocchi di campana, bollitura di qualche sostanza e altri gesti veloci e misurati.
Sempre nelle vicinanze del santuario, ci inoltrammo per un sentiero in salita che, in pochi minuti ci fece scollinare. Dall'altra parte, un ruscello che si chiamava, se non ricordo male, "Hakuryū" (drago bianco), per il colore bianco della schiuma dell'acqua. Quello che mi colpisce nel ricordo delle mie poche incursioni nel bosco giapponese è il senso di maestosità cupa e fresca, tra alberi alti e dritti. E i colori accesi dell'autunno, con il rosso sfolgorante delle foglie d'acero.
Tornati per la notte all'albergo, ci dedicammo all'ultimo bagno affacciati sulla gola. Il giorno dopo rientrammo alla metropoli.
(foto di Walter Ponsano)