Continuiamo a risalire il fiume. Incappiamo nelle abitazioni dei senzatetto. Proprio nel cammino tra argini e acqua, quasi alla stessa altezza della corrente. Sono piccole come tende da campeggio, costruite in cartone e legno e, nonostante la povertà dei materiali, assemblate con amore. Hanno un'aria precaria e ci si chiede quanto rifugio possano dare dall'inverno e dall'umidità del fiume. Pare che qualche anno fa gli argini fossero affollati di queste tende-capanne, poi sgomberate dalle autorità. Forse siamo capitati in una delle aree lasciate tranquille. Non vediamo traccia degli abitanti, ma spesso notiamo all'ingresso le loro calzature: anche nella disgrazia, non si tralascia l'uso giapponese di togliersi le scarpe prima di entrare nell'abitazione.
Man mano che camminiamo, passiamo sotto vari ponti, tutti in cemento o metallo, tutti anonimi. Anche se mi accorgo, osservando meglio, che ognuno è dipinto di un colore diverso, magari vivace: giallo, verde, azzurro. Anche qui si è cercato di dare un po' di vivacità al grigio.
Percorsi un paio di chilometri, arriviamo a un giardino, con un edificio di quattro-cinque piani che si affaccia lungo il fiume. Decidiamo di entrarci. È una sorta di centro sportivo di quartiere, con bar, palestre e altri servizi. Saliamo all'ultimo piano.
Qui li vediamo: i praticanti del kyūdō, del tiro con l'arco. Al centro di un ambiente che ricordo luminoso e tutto vetrate, una decina di uomini e donne in abito tradizionale e gonna-pantalone hakama si esercitano. Ci vedono curiosare dai vetri e ci fanno segno di entrare, invitandoci ad accomodarci sul tatami; da una posizione un po' arretrata osserviamo gli sportivi in fila tirare frecce verso il bersaglio. Sembra proprio come raccontava Eugen Herrigel negli anni Trenta nel classico Lo zen e l'arte del tiro con l'arco: uno strumento molto lungo, che costringe gli arcieri a tendere le braccia leggermente sopra la testa, posizione che non pare proprio comoda. E la sensazione, forse dovuta alla lettura di quel libro, breve e appassionante, che colpire il bersaglio non sia al centro dei loro pensieri. È bello osservare la loro eleganza e siamo felici del dono di quest'ospitalità inattesa. Al momento di andarcene, ci regalano spillette e portachiavi a forma di bersaglio.
Riprendiamo il cammino allontanandoci dal fiume. Siamo ancora a Ningyōchō, uno dei tradizionali quartieri popolari di Tōkyō, nella Shitamachi, la "città bassa". Passeggiamo un po' per i viali; ormai il sole è tramontato e il freddo dell'inverno si fa sentire.
Vediamo un negozietto che vende amazake. Questa bevanda, calda e dolce, è una tradizione invernale. Mi lascio ingannare dal nome, penso sia alcolica. Ne prendiamo due bicchieri: è dolcissima, per me troppo, e di alcol nessuna traccia. Lascia una consistenza pastosa in bocca.
Ci dirigiamo verso la stazione del metro.
Penso al Sumida letterario descritto tra fine Ottocento e primo Novecento, con la sua aura vivace e romantica. Ai racconti di Nagai Kafū e alle sue atmosfere, che ora sembrano scomparse. O forse anche allora il fiume era un po' come adesso? Ho spesso l'impressione che gli autori giapponesi tendano a descrivere parti selezionate di paesaggi, raramente le visioni panoramiche d'insieme che tanto si tende ad apprezzare in occidente (la Tour Eiffel, le cascate del Niagara, le spiagge incontaminate, la torre panoramica sulla Foresta Nera, luoghi dove lasciare spaziare lo sguardo). Probabilmente, a pochi metri dalle romantiche barchette a noleggio su cui Kafū si dilettava con le sue amanti agli inizi del Novecento, si trovavano gli scarichi fognari della città e le capanne degli abbandonati.
... In tutto questo, un'amica italiana da anni in Giappone mi diceva che il Sumida ora è molto meno inquinato di qualche anno fa, con tanto di pesci guizzanti nelle sue acque.
(foto di Alessandra Corda)
Man mano che camminiamo, passiamo sotto vari ponti, tutti in cemento o metallo, tutti anonimi. Anche se mi accorgo, osservando meglio, che ognuno è dipinto di un colore diverso, magari vivace: giallo, verde, azzurro. Anche qui si è cercato di dare un po' di vivacità al grigio.
Percorsi un paio di chilometri, arriviamo a un giardino, con un edificio di quattro-cinque piani che si affaccia lungo il fiume. Decidiamo di entrarci. È una sorta di centro sportivo di quartiere, con bar, palestre e altri servizi. Saliamo all'ultimo piano.
Qui li vediamo: i praticanti del kyūdō, del tiro con l'arco. Al centro di un ambiente che ricordo luminoso e tutto vetrate, una decina di uomini e donne in abito tradizionale e gonna-pantalone hakama si esercitano. Ci vedono curiosare dai vetri e ci fanno segno di entrare, invitandoci ad accomodarci sul tatami; da una posizione un po' arretrata osserviamo gli sportivi in fila tirare frecce verso il bersaglio. Sembra proprio come raccontava Eugen Herrigel negli anni Trenta nel classico Lo zen e l'arte del tiro con l'arco: uno strumento molto lungo, che costringe gli arcieri a tendere le braccia leggermente sopra la testa, posizione che non pare proprio comoda. E la sensazione, forse dovuta alla lettura di quel libro, breve e appassionante, che colpire il bersaglio non sia al centro dei loro pensieri. È bello osservare la loro eleganza e siamo felici del dono di quest'ospitalità inattesa. Al momento di andarcene, ci regalano spillette e portachiavi a forma di bersaglio.
Riprendiamo il cammino allontanandoci dal fiume. Siamo ancora a Ningyōchō, uno dei tradizionali quartieri popolari di Tōkyō, nella Shitamachi, la "città bassa". Passeggiamo un po' per i viali; ormai il sole è tramontato e il freddo dell'inverno si fa sentire.
Vediamo un negozietto che vende amazake. Questa bevanda, calda e dolce, è una tradizione invernale. Mi lascio ingannare dal nome, penso sia alcolica. Ne prendiamo due bicchieri: è dolcissima, per me troppo, e di alcol nessuna traccia. Lascia una consistenza pastosa in bocca.
Ci dirigiamo verso la stazione del metro.
Penso al Sumida letterario descritto tra fine Ottocento e primo Novecento, con la sua aura vivace e romantica. Ai racconti di Nagai Kafū e alle sue atmosfere, che ora sembrano scomparse. O forse anche allora il fiume era un po' come adesso? Ho spesso l'impressione che gli autori giapponesi tendano a descrivere parti selezionate di paesaggi, raramente le visioni panoramiche d'insieme che tanto si tende ad apprezzare in occidente (la Tour Eiffel, le cascate del Niagara, le spiagge incontaminate, la torre panoramica sulla Foresta Nera, luoghi dove lasciare spaziare lo sguardo). Probabilmente, a pochi metri dalle romantiche barchette a noleggio su cui Kafū si dilettava con le sue amanti agli inizi del Novecento, si trovavano gli scarichi fognari della città e le capanne degli abbandonati.
... In tutto questo, un'amica italiana da anni in Giappone mi diceva che il Sumida ora è molto meno inquinato di qualche anno fa, con tanto di pesci guizzanti nelle sue acque.
(foto di Alessandra Corda)